
di Andrea Boccia

Parigi – Con l’esplosione della pandemia, per l’architetto Renzo Piano non è stato più possibile compiere sopralluoghi al cantiere del ponte di Genova, un’attività che realizzava con regolarità e seguendo anche un preciso rituale. Ingresso da ponente, l’incontro con i responsabili dei lavori e poi l’attraversamento dell’area, a piedi, fino al lato opposto, per verificare l’andamento dei lavori. Così aveva fatto il 2 febbraio, una domenica, passandoci qualche ora, nei giorni precedenti al varo della prima campata da cento metri.

Il cantiere non si è mai fermato, aumentando i sistemi di sicurezza, anche dopo l’esplosione dell’emergenza coronavirus. Ora siamo all’atto finale, l’ultima delle 19 campate.
«L’ultimo varo», dice l’architetto dalla sua residenza di Parigi, che ha trasformato di fatto nel suo studio, piantando chiodi nei muri e appendendo alle pareti i dossier dei suoi progetti. «Seguo costantemente quello che succede, ogni giorno, anche se da lontano», dice l’architetto e senatore a vita. «C’è sempre qualcosa di cui occuparsi e a Genova ci sono i miei collaboratori, con l’architetto Stefano Russo, che compiono anche visite in cantiere».
L’ultimo «varo», come lo chiama l’architetto, è un momento importante. «Si salda l’ultimo pezzo e poi tutto dovrà scendere di 20-30 centimetri sugli appoggi, che sono già stati posizionati, e che da quel momento dovranno cominciare a fare il loro mestiere, per centinaia di anni». Un momento fondamentale dell’opera di costruzione, ma Piano resta cauto, prudente.
«Da quel momento si comincerà a “caricare” il ponte con la soletta, e poi ci sono mille altre cose da fare, gli impianti di illuminazione, la sistemazione dei bordi con i deflettori del vento, l’installazione dei pannelli solari. Insomma, l’ultimo varo è importante, ma abbiamo ancora tanto lavoro da fare, ci attende un grande impegno nei prossimi tre mesi, e tutti i responsabili del cantiere ne sono consapevoli».
Il completamento della struttura, della nave bianca che attraverserà la vallata quasi chiedendo permesso, è un motivo di soddisfazione per come sta procedendo il lavoro collettivo, «ma non è il ponte finito» e soprattutto non è occasione di festa.
«No – sottolinea l’architetto – non può essere una festa perché quest’opera è una risposta a una tragedia, e non dobbiamo mai dimenticarlo. Io personalmente non l’ho mai dimenticato, ma devo dire che non conosco nemmeno uno, fra quanti lavorano in cantiere ai diversi livelli di responsabilità, che non abbia un fondo di mestizia negli occhi».
Nel nuovo Ponte di Genova, ricorda l’architetto, c’è molto dell’anima della città, della “normalità” genovese di fare le cose. «Rammenta – dice – una qualità di cui oggi si sente particolare necessità, quella della sobrietà, della misura. In questo, rispetto agli altri noi partiamo in vantaggio. Siamo abituati a non sprecare, a non buttare via nulla. In quello che si sta facendo nella costruzione del Ponte di Genova non c’è niente di miracoloso. C’è meticolosità, serietà, fermezza, costanza, competenza. C’è il lavoro collettivo. Questo è il modello ed è la dimostrazione che questo Paese è in grado di fare grandi cose, è un po’ triste che dimostri queste capacità solo nei momenti di emergenza».
Dall’emergenza di Genova a quella del Paese, ancora in lotta contro il coronavirus. Piano sottolinea la necessità di mettere mano a un grande progetto di manutenzione dell’Italia, che definisce «inderogabile». L’obiettivo è far entrare questi interventi fra le priorità del Paese. Una grande opera di “rammendo”, come Piano la definisce: «Penso al sistema infrastrutturale italiano, ad interventi antisismici, alla sistemazione degli spazi pubblici nelle periferie. Sono tutti cantieri che eviteranno futuri problemi ed enormi spese per fronteggiare le emergenze. In più questi cantieri portano ossigeno all’economia, al lavoro».
Con il Ponte di Genova in vista del traguardo, si torna a parlare della sua intitolazione. L’architetto conferma il pensiero già espresso tempo fa. «Cercando su qualunque motore di ricerca la parola ponte viene subito fuori Genova. Per me è il Ponte di Genova, con la “p” maiuscola. Normalmente sono i bambini che sanno trovare i nomi più giusti. È un ponte che è anche il ritratto della città, no?»