Processo Floyd, il verdetto: «L’agente Chauvin è colpevole di omicidio»

Processo Floyd, il verdetto: «L'agente Chauvin è colpevole di omicidio»

L’agente il 25 maggio 2020 soffocò l’afroamericano di 46 anni. La giuria: «E’ tre volte colpevole». Attesa la decisione del giudice sull’entità della pena

Colpevole. Tre volte colpevole. Il poliziotto Derek Chauvin ha ucciso George Floyd. La giuria ha deciso rapidamente, dopo solo dieci ore di discussione e senza chiedere chiarimenti alla Corte di Minneapolis. Toccherà ora al giudice Peter Cahill, fissare l’entità delle pene, entro sei-otto settimane.

A carico di Chauvin erano state formulate tre imputazioni. Colpevole in tutti e tre casi: omicidio colposo, ma con il presupposto di un’aggressione o di un assalto contro la persona, senza tenere in conto le possibili conseguenze; omicidio dovuto a una condotta pericolosa e negligente; omicidio preterintenzionale, causato da un comportamento irragionevolmente rischioso. Le punizioni base oscillano tra i 10 e i 15 anni di reclusione per le due prime accuse; cinque anni per la terza. Solo con le aggravanti, per esempio omicidio commesso davanti a testimoni minorenni, si potrà arrivare fino a 40 anni di carcere. E’ una sentenza storica per l’America. E’ la condanna attesa da una larga parte del Paese. A cominciare da Joe Biden, che ieri aveva rotto il silenzio prima che arrivasse la notizia:«Prego perché il verdetto sia quello giusto. Per me le prove sono travolgenti. Lo dico solo ora perché la giuria è in ritiro». Il presidente è poi intervenuto ancora in serata, con un discorso televisivo in cui invitato il Paese ora a restare unito. «Siamo sollevati» ha detto Biden, che fra l’altro ha parlato al telefono con i familiari di di Derek Chauvin. Ben Crumo, avvocato dei familiari della vittima, ha postato su Twitter un video della telefonata. «Non c’è niente che possa far andare meglio le cose» ha detto il presidente commentando la morte del loro congiunto, «ma almeno c’è giustizia».

I dodici giurati, sei bianchi, quattro afroamericani, due di altra etnia, cinque uomini e sette donne, si erano chiusi in Camera di consiglio da lunedì sera. Hanno ripercorso le prove e soprattutto i filmati di un processo inedito, costruito sulle immagini riprese dalle «body camera» degli agenti, dalle telecamere di sicurezza e dai telefonini dei testimoni. La Procura ha mostrato ancora una volta la sequenza che ha indignato il mondo: Chauvin che preme il suo ginocchio sul collo di George, ammanettato e immobilizzato, pancia a terra.Nove minuti e 29 secondi, in quella sera del 25 maggio 2020. Sono i fotogrammi che lo scorso anno sollevarono un’onda di proteste in tante città degli Stati Uniti, guidate dal movimento di «Black Lives Matter». I testimoni convocati in aula hanno commentato con angoscia, spesso piangendo, quella scena. Tra loro una bambina di nove anni: «è molto triste».

Davanti al tribunale, una folla di persone ha accolto la sentenza con sollievo, con canti di gioia. Dentro, sul banco degli imputati, Derek Chauvin ha ascoltato il verdetto di condanna ed è stato subito portato in carcere. Un uomo isolato: nessuno dei suoi ex colleghi lo ha difeso. Anzi, tra le deposizioni decisive c’è sicuramente quella del capo della Polizia Medaria Arradondo, anche lui afroamericano. E’ stato lui a dichiarare che «quella pratica», cioè quel ginocchio, quel ghigno, quella mano in tasca, «non fanno parte delle regole della polizia di Minneapolis; è stata un’iniziativa, un’improvvisazione di Chauvin». L’avvocato Eric Nelson, il legale di Chauvin, non ha mai avuto grandi margini. Ha cercato di seminare dubbi, di smontare la ricostruzione dei fatti. Ma è andato a sbattere contro la forza insormontabile delle immagini. Contro l’evidenza del referto medico: George è morto per asfissia, non per overdose di oppioidi. Ora la tensione si scioglierà a Minneapolis, la città del Minnesota in bilico da giorni, con la Guardia nazionale schierata in forze, con i distretti di polizia protetti da alti reticolati.Dovrebbe rientrare l’allarme anche nelle altre città, in particolare a Chicago e a Washington Dc. E la parola adesso passerà alla politica, al Congresso degli Stati Uniti, dove la Camera ha già approvato una legge di riforma della polizia, con standard nazionali per l’addestramento e per l’uso della forza.

La sentenza del processo Floyd segnerà la storia del Paese. In tre settimane di dibattimento si sono concentrate le tensioni accumulate da un anno, da quella sera del 25 maggio 2020, quando George, afroamericano di 46 anni, entrò in un negozio per comprare un pacchetto di sigarette, pagò con una banconota contraffatta da 20 dollari, risalì in macchina e poco dopo iniziarono gli ultimi 9 minuti e 29 secondi della sua vita. Ammanettato, sdraiato con il petto contro l’asfalto. Sul collo il ginocchio del poliziotto Derek Chauvin.

Le accuse

A carico di Chauvin sono state formulate tre imputazioni. Proviamo a trasporle nelle nostre fattispecie penali con un inevitabile margine di approssimazione: 

• omicidio colposo, ma con il presupposto di un’aggressione o un assalto contro la persona, senza tenere in conto le possibili conseguenze; 

• omicidio dovuto a una condotta pericolosa e negligente; 

• omicidio preterintenzionale, causato da un comportamento irragionevolmente rischioso. 

Toccherà al giudice Peter Cahill fissare l’entità delle pene, che non si possono cumulare in caso di condanna simultanea per tutti e tre i reati. In questo caso viene comminata la pena più alta. Le punizioni base oscillano tra i 10 e i 15 anni di reclusione per le due prime accuse; e di cinque anni per la terza. Solo con le aggravanti, per esempio omicidio commesso davanti a testimoni minorenni, si potrà arrivare fino a 40 anni di carcere. 

Il processo 2.0

È stato un processo inedito, 2.0, costruito sulle immagini girate dalle «body camera»in dotazione agli agenti, dai telefonini dei testimoni, dalle telecamere di sicurezza. Un racconto in presa diretta, crudo e drammatico, dalla periferia di Minneapolis, in Minnesota. Un luogo familiare, perché simile ai quartieri marginali di tante metropoli americane. Le prime sequenze ci mostrano uno sprazzo della vita quotidiana di Floyd. Lo vediamo entrare nell’emporio Cup Food, oggi trasformato in memoriale e in punto di incontro per gli attivisti. Alto, massiccio, in canottiera nera. Farfuglia qualcosa, scherza con i clienti. Alla fine compra le sigarette con 20 dollari falsi. Il referto post mortem rivelerà che era sotto effetto degli oppioidi. Un uomo in lotta con la dipendenza da molto tempo, come ha detto Courtney Ross, la donna che lo frequentava nel 2017. 

Quella sera di primavera sembra tutto tranquillo. George rientra in auto, dove lo aspetta un conoscente che sarà rapidamente controllato e poi rilasciato dalla pattuglia di agenti. Ecco la clip registrata dalla body camera di Thomas Lane, uno dei primi agenti a entrare in contatto con Floyd. Il poliziotto si avvicina. Picchetta sul vetro, chiede subito a George di scendere. Poi tira fuori la pistola e la punta contro l’uomo ancora fermo nell’auto: «Non sparatemi, sono una brava persona, dite ai miei figli che gli voglio bene», urla George, spaventato e visibilmente confuso. È un esempio concreto del cosiddetto «razzismo strutturale»: i tutori dell’ordine diffidano a priori dei maschi afroamericani. Temono che siano armati, che facciano parte di una gang di trafficanti e così via. Le norme e l’addestramento dovrebbero servire per distinguere. In un altro video lo stesso agente rimette la pistola nella fondina e urla a Floyd: «Metti quelle c… di mani (your fucking hands) sul volante». Non: «Per favore signore, metta le mani in vista sul volante», come prevedono le «regole di ingaggio».

Il ginocchio di Chauvin

Entra in scena Derek Chauvin, 46 anni, da 19 in servizio nel Minneapolis Police Department. Quando arriva altri tre colleghi stanno già cercando di caricare il fermato sulla macchina della polizia. George è ammanettato, protesta, non vuole montare sul sedile posteriore. Si prepara la scena che tutto il mondo ha visto decine e decine di volte. Sono i fotogrammi che lo scorso anno indignarono l’America, sollevarono un’onda di proteste su tutto il territorio degli Stati Uniti, guidate dal movimento di Black Lives Matter. I testimoni hanno commentato con angoscia, spesso piangendo, la scena che abbiamo visto ormai centinaia di volte. Quella sera, su quel marciapiede, ci sono anche una ragazza di 17 anni che riprende tutto con il telefonino. Accanto a lei sua cugina, una bambina di 9 anni: «È triste», dice ai giurati. 

La parola del capo

Tra le deposizioni decisive c’è quella di Medaria Arradondo, capo della polizia di Minneapolis, anche lui afroamericano. Dichiara che «quella pratica», cioè quel ginocchio, quel ghigno, quella mano in tasca, «non fanno parte delle regole della polizia di Minneapolis; è stata un’iniziativa, un’improvvisazione di Chauvin». Altri ufficiali del Dipartimento di Minneapolis, convinti o meno che fossero, confermano la linea di Arradondo. L’avvocato Eric Nelson, il legale di Chauvin, non sembra avere grandi margini. Cerca di seminare dubbi, di smontare la ricostruzione dei fatti. Sostiene che l’agente abbia agito «in modo ragionevole» e «seguendo le procedure». Tenta di dimostrare che Floyd non sia morto «per conseguenza diretta» di quella pressione, di quel ginocchio. La versione dei medici, però, è diversa: George è morto per asfissia, non per overdose di oppioidi. 

L’attesa e la politica

I dodici giurati erano riuniti da lunedì 19 aprile in un hotel di Minneapolis. Nell’ultima giornata hanno fatto il pieno di raccomandazioni. «Giudicate sulla base di quello che avete visto con i vostri occhi», ha detto il Procuratore Steve Schleider, chiudendo la requisitoria. «Considerate tutti i fatti, non una sola prospettiva», ha replicato l’avvocato Nelson, Gli attivisti afroamericani e non solo, si sono mobilitati da giorni. A Minneapolis è schierata la Guardia Nazionale. Stato di allerta anche in alcune città già segnate dalle manifestazioni e da qualche scontro con la polizia. In particolare ChicagoPortland e Washington. La tensione era già salita al massimo con l’uccisione di un altro afroamericano, Duante Wright, in un sobborgo di Minneapolis, e con il caso del tredicenne Adam Toledo, colpito a morte da un poliziotto a Chicago

I leader di Black Lives Matter hanno stretto un patto con lo stesso Arradondo. Da una parte c’è l’impegno a isolare i vandali e i saccheggiatori. Dall’altra a vigilare sulle manifestazioni senza abusare della forza pubblica. I gestori di Facebook hanno fatto sapere che cancelleranno i post «che incitano alla violenza». In movimento anche la politica. Il fronte conservatore ha attaccato duramente la deputata democratica e afroamericana Marine Waters che, nel fine settimana, aveva invitato gli attivisti a «non lasciare la piazza, a essere più conflittuali» in caso di «sentenza ingiusta»

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