A cura di Redazione

Un road movie tutto siciliano, con tinte surreali dal sapore felliniano, l’esordio cinematografico degli artisti siciliani Colapesce e Dimartino (al secolo Lorenzo Urciullo e Antonio Di Martino), che a pochi giorni dal successo sanremese di «Splash» tornano come protagonisti, co-sceneggiatori, nonché autori della colonna sonora di «La primavera della mia vita», attualmente nei cinema.

La primavera della mia vita, è una di quelle opere che se la leggi come news su un sito pensi che possa essere una follia autolesionista per chi la mette in scena e che poi, invece, te la ritrovi davanti e non puoi non adorarla. Per un motivo semplicissimo: quello che a te sembra una paracula operazione di marketing – per la serie “del successo non si butta via niente”, e probabilmente c’è pure questa dinamica, perché è anche giusto così – diventa un’operazione raffinata e divertentissima, (in)dolente e pazza. E il segreto è in quel duo stralunato e ironico, con la faccia un po’ così di chi in fondo sa e può far tutto, ma così a suo agio non si trova da nessuna parte. Di chi, come gli indiani “contrari”, gli heyoka, fa e dice le cose giuste prendendo strade contromano. I videopodcast da Sanremo, fin da Musica leggerissima, già avevano raccontato al grande pubblico che i due, come attori e commedianti, nel senso più letterale e storico del termine, avessero un gran talento.
Meno potevamo immaginare che potessero tirar fuori, con pretese minori e dovute proporzioni, un Non ci resta che piangere un po’ “Sicilia coast to coast” e un po’ Get Back. «Va sottolineata una cosa a cui teniamo: l’idea del film nasce prima del successo musicale, arriva durante il lockdown, e anche se ci sono state collaborazioni fondamentali come quella dello sceneggiatore Michele Astori, che ha preso le nostre idee confuse e ha dato loro una forma, e poi ovviamente di Zavvo (Nicolosi, il regista, nda), abbiamo avuto un controllo totale, dalla sceneggiatura alle musiche». Splash: dopo averlo detto, si sente il buco nell’acqua di chi già malignava su un film ovviamente ancora non visto.

«Nella Primavera della mia vita ci sono diversi piani di lettura», sottolinea Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce. «Anche quello di posizionamento, dal mio personaggio che vuole fare i soldi, vuole il pop, vuole vendersi, e Antonio che fa quello fricchettone, duro e puro. E poi il road movie è una grandissima opportunità per raccontare una Sicilia diversa, psichedelica, a metà tra Jodorowsky e Franco e Ciccio». Con dentro pure Byrne e Wenders: anche grazie al lavoro di Zavvo Nicolosi, di fatto il terzo affatto incomodo della coppia (collaborano da dieci anni), le suggestioni sono tante e tutte centrate. Citazioni, ispirazioni appoggiate con lieve raffinatezza, la stessa con cui probabilmente i due, investiti da un successo inaspettato, lo esorcizzano in un’opera bizzarra e tenera, un apologo sull’amicizia, sul sodalizio artistico, sulla bellezza. «Sì, è un film che esorcizza molte paure», confessa Dimartino, Antonio. «Parla di personaggi che si chiedono quale sia il loro posto nel mondo e così viene messo in discussione tutto, l’uomo e l’artista, e sì, pure il nostro rapporto personale e creativo. Che, ricordiamolo, è basato sulla sfiducia».

«E comunque: magari Get Back», interviene di nuovo il sodale, «è uno dei nostri documentari preferiti degli ultimi anni, un capolavoro assoluto pieno di aneddoti, senti l’intimità del talento e della loro visione del futuro, è qualcosa di unico». Ma nella Primavera della mia vita manca una Yoko Ono, sebbene nel film non si racconti la fine di un gruppo, ma una riconciliazione. Il film racconta proprio questo: i due in piena tournée si sono lasciati, Antonio dopo una lite è sparito per poi unirsi a una setta – “Cu minchia sugno i semeniti?!” (perdonatemi, siciliani, per la pessima resa del vostro meraviglioso dialetto, che era pure quello del mio adorato nonno Manlio, nda) – che ora dà loro l’opportunità di ripartire da un progetto passato, un piccolo sogno dimenticato, un libro sulle leggende siciliane, da ultimare però in pochi giorni. Meno di quelli a disposizione dei Beatles per il loro ultimo spettacolo.
«La mia Yoko Ono è Lorenzo, le altre le allontaniamo», chiosa Antonio. Non lo è neanche, la loro Yoko, il regista storico, l’uomo che da sempre li traduce in immagini. «Lorenzo e Antonio», ci racconta Zavvo, «si mettono e ti mettono molto in discussione, ti stimolano e ti spiazzano, non accettano mai supinamente una decisione e questo però è bellissimo, ti porta sempre altrove». E a dispetto della sicilianità e di una certa svagatezza geniale alla Battiato, rivendicano una totale assenza di Centro di gravità permanente, nel film e nella trama, a favore di tante intuizioni sgarrupate, assurde e geniali (le leggende, Dimartino che dorme in piedi, Colapesce con l’armadio degli psicofarmaci enorme e diviso secondo depressioni di vario tipo), e il gusto di un racconto sempre originale. «In questo racconto ognuno ha la sua verità e questo film vuole provare a capire tutti, anche le cose più strane», incalza Dimartino. E Colapesce conclude: «È una storia verosimile perché incrocia leggende che hanno tutte degli studi anche molto seri alla base, pensa solo alla parte di Roberto Vecchioni sul fatto che William Shakespeare fosse siciliano. Ci ha scritto pure un libro a riguardo».